martedì 3 settembre 2013

La Città.


Era un sogno, condiviso in un bar di Milano con un caffè.
Libri, passioni, viaggi. La città sognata da entrambi.
Lei era alta, longilinea e raffinata.
Di una bellezza particolare: capelli di poco più corti delle spalle, occhi chiari, poco seno e la fantasia di andarci insieme.

Bisanzio, Costantinopoli, Istanbul.
Racconta la storia, quella che guarda alla leggenda, che il suo nome derivi dal Greco medioevale, "ες τήν Πόλιν".
"Verso la Città", la "Città delle Città", come usavano appellarla i Greci, sin da quando era ancora Bisanzio.
Costantinopoli eroica, che resistette tre mesi assediata, con settecento veneziani e seicento genovesi appena, accorsi in suo aiuto. 
Poi trascorse la notte. 
Era il 29 di maggio dell'anno 1453. Martedì ed era mattina. 
Chissà se anche quel giorno c'era la nebbia.

Istanbul. 

La città tra due mondi, sospesa tra Europa e Asia. 
Ti accoglie avvolta nella nebbia del Bosforo e non vedi niente di fronte a te, se non qualche contorno sfumato. 
L'odore è acre: di acqua stantia, di piscio, di essere umano.   Gatti randagi. Tantissimi, nei vicoli, tra la spazzatura abbandonata, appollaiati sulle colonnine elettriche. 
Denutriti e spossati.

Centri commerciali di negozi occidentali, parcheggi di auto di lusso, aiuole fiorite. 

E loro, i pescatori poveri del ponte Galata. 

Sigaretta accesa, ingiallita é schiacciata, sudore ed esche vive. Per terra cenere, acqua e sudiciume.
Alle loro spalle il Bosforo, e una schiera di automobili scadenti. Modello Fiat, anni settanta, marchio Tofas. Finestrini oscurati con il cartone, per scappare dal sole cocente tra un abbocco e un altro.  
Sono vecchi, ragazzi e qualche bambino. 
Tutti li, appoggiati alla ringhiera a guardare i traghetti passare. 
Ogni tanto un pesce. 

Di la dal ponte il bazar delle spezie. 
Un tugurio di grida, colori e profumi largo poco più di tre metri. L'odore delle spezie, certo, ma soprattutto quello penetrante del formaggio e degli scarti, buttati li, in mezzo al passaggio e lavati via con l'acqua.
Sopra il ciottolato c'è davvero di tutto: dalle sigarette ai fazzoletti usati. 
Migliaia di piedi. 
Ragazzi, appena adolescenti, svicolano tra la folla, portando sulle spalle enormi carichi, tenuti insieme da lenzuoli annodati tra loro. 
Esausti, sporchi, scarpe rotte e pantaloni sgualciti: nel volto lo sguardo della fatica.

Ad orari precisi la preghiera. 


Le litanie invadono la città dai minareti. Assordanti, incomprensibili, anacronistiche forse. Molti si fermano a pregare, altri corrono verso la moschea. I più ignorano. 

Istanbul delle terrazze, quelle eleganti sul Bosforo e le altre. Ci accedi da ingressi spesso anonimi di palazzi fatiscenti, dove sembra non viverci nessuno. Ristoranti, caffè, locali notturni; vista incredibile. Dalle strade non le vedi, non le noti. Eppure ci sono e sono ricercare. Di notte e di giorno dalle terrazze il cemento sembra infinito. Scollina dal primo piano e arriva fino all'orizzonte della collina successiva.
Diciassette milioni; questo il numero approssimativo dei suoi abitanti. 

Non è una città bella secondo i canoni occidentali e forse questo è ciò che la rende affascinante. Se navighi per il Bosforo, lasciandola alle tue spalle, il centro storico si presenta come un ammasso di edifici in parte diroccati, uno attaccato all'altro, senza un albero, uno spazio, un respiro. 
È ocra, orizzontale, antica. 
Mediterranea, forse, nel suo significato primario. 
Un concentrato di stili e di civiltà. Europea in alcune vie, nordafricana in quella subito dopo. Asiatica all'incrocio. Ogni tanto un buco, un palazzo in ristrutturazione. 
Macerie, buttate li a caso tra la spazzatura e i gatti, 
insieme a te, che cammini a metà tra lo stupefatto e lo schifato, 
osservandone la vita.

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