mercoledì 11 settembre 2013

Memento NYC 9|11


Sono trascorsi dodici anni. Quindici da quando ci sono salito.

Da sotto, con il naso all'insù, sembravano infinite per l'immaginario di un bambino. 
Solide, slanciate, piene di vita.
Alla base, migliaia di persone entravano e uscivano in continuazione. Giù dalle scale, le Towncar limousine schierate ad attendere l'uscita dei loro passeggeri; lunghissime e nere.
Da sottoterra in centinaia si riversavano nel piazzale a ritmi alternati, ogni pochissimi minuti. 

World Trade Center, recitava il cartello della metropolitana. 
1000 $ x 200cm, per chi volesse, oggi, appenderlo alla parete. Lo trovi in un mercato ambulante di fianco ad un caffè ad angolo, nella zona del Meatpacking District, buttato li, in bella vista, insieme con le cianfrusaglie di un rigattiere, tra un parcheggio multipiano e la High Line.

Segno dei tempi che passano. 
Tratto marcato di una città che corre troppo per fermarsi a ricordare più di quel tanto, ma che non dimentica. 
Che metabolizza. Che guarda avanti. 
Che trasforma, in perfetto suo stile, una tragedia in una fonte di businnes e privilegio, degna del cinico più arguto.  

Era pomeriggio per noi in Europa, quando, ad un tratto, quello che fino ad allora era nemmeno lontanamente immaginabile, divenne realtà. 
Vederle crollare, sgretolarsi come le torri di sabbia che fanno i bambini al mare con i secchielli, sotto lo sguardo attonito dei cronisti e tra le grida di terrore dei passanti, è stata una immagine che non dimenticheremo. Mai.
Eravamo tutti li, ammutoliti davanti alla televisione che trasmetteva in diretta il più grande attacco terroristico mai sferrato. 
Testimoni inconsapevoli di un capitolo di Storia. 
La nostra Storia. La nostra. Quella di cui siamo responsabili, quella che condiziona le nostre vite e l'andamento del Mondo. Quella che ti si appiccica addosso e che, alla fine, finisci per raccontare. 
Li dentro erano ebrei, cattolici e musulmani. Bianchi e neri; asiatici, caucasici, Yankee. Messicani, portoricani, e irlandesi. Che differenza fa? erano; e non sono più. E queste differenze appartengono ai vivi.  
Li dentro erano gli "Americani", con le scarpe da tennis sotto l'abito scuro, lo zaino sportivo e il bricco di caffè in mano. 
Non importa se fossero arrivati a piedi, o in metropolitana o con la limousine. Non importa se erano CEO o impiegati delle pulizie. Guardie, uscieri o segretarie. Pompieri o gente che passava di li a caso e si è fermata ad aiutare. Erano persone. E duemilanovecentosettantaquattro di loro, li dentro ci sono rimaste.  

Dalle macerie a Ground Zero, in una enorme recinzione colorata di fotografie e lettere scritte per loro dai familiari, dai figli, dai genitori. Straziante. Perché erano come noi, come il nostro vicino di casa. Perché potevamo essere noi, che andiamo in ufficio ogni mattina, o a scuola, i nostri genitori, i nostri amici.
E' toccato a loro, e a noi il compito di non dimenticarli. 

Nonostante siano state scritte milioni di righe per spiegare, o giustificare, o individuare i colpevoli dell'accaduto, non mi interessa raccontarti di quanto sia poco credibile l'ufficiale versione dei fatti. 
Oggi bisogna ricordare solo loro, gli "Americani". 
Quelli che la prima volta che li vedi ti sembrano tutti strani: tutti alti, molti grassi, di una obesità che non avevi mai visto. Carini loro che girano su automobili enormi, abitano in palazzi altissimi, bevono bibite in taglio piccolo da mezzo litro, mangiano hotdog e hamburger nei fastfood, e la pasta gli piace scotta. Ma come cazzo fa a piacerti scotta, la pasta? Sono buoni, disponibili, gentili. Appena li conosci ti stanno subito simpatici e dopo pochi giorni gli vuoi già bene. 

Come, del resto, ami la città. Quell'isola da un milione e mezzo di abitanti, sporca, puzzolente e con poco ossigeno. 
Gelida di inverno e torrida in estate; dove il sole non lo vedi quasi mai, se non dal parco o sulla terrazza di qualche grattacielo; dove ti svegli alla mattina e lotti con gli scarafaggi per farti la doccia. 
Dove se hai la febbre vai comunque a lavorare, ma se si rompe l'aria condizionata ti danno un giorno di ferie. 

La grande Mela, dove milioni di immigrati, italiani e non, sono approdati dopo interminabili giorni di navigazione per l'Oceano, e molti di loro era la prima volta che lo vedevano il mare. Ai loro figli hanno insegnato il dialetto e a comportarsi bene. 
New York City, quella che ci arrivavi con il Concorde da Parigi, autista al JFK con il tuo nome sul cartello e una limo pronta per portarti al Palace, o al Plaza, o al Waldorf.

NY, la mia: che ci arrivi con un carro bestiame della Delta, che è l'unico che ti puoi permettere, sognando dal finestrino i rapaci argentati dell'American Air Lines o le hostess da patinata della Pan Am. 
Che il venerdì sera all'ora dell'aperitivo, siccome ti han detto che i musei sono gratis, per sentirti un po' newyorker anche tu, decidi che vai a visitare una Galleria che non si fila nessuno, piena zeppa di Arte americana del Novecento. 

Un Pollock piccolino, un Rotcho, più di qualcosa di De Kooning. Fai quel minimo di coda che ti serve per riposarti dall'affanno dei trenta isolati a piedi che hai camminato e, quando tocca a te, nella cassetta delle offerte (perché si entra a offerta libera) infili contento i tuoi 10$. E ti senti un benefattore, mentre sorridi alla elegante signorina che ti invita ad entrare, vedendo in te solo un buffo ragazzo che ha pagato dieci volte il dollaro che tutti donano il venerdì sera. Italian Style ho sperato pensasse; "bravo pirla" avrà considerato.
Ha apprezzato, comunque.   

Una New York, insomma, che hai fotografato, diverse volte nel corso della tua vita, in cui ogni volta che parti sogni la prossima che ci ritornerai, perché non è mai abbastanza.  
Tutto questo per dire che oggi è il 09|11 e sono trascorsi dodici anni da quel lunedì. Nel mezzo ci sono stati altri attentati terroristici, due guerre, più di qualcuna esecuzione, due crisi economiche mondiali e nonostante tutto non mi pare che sia cambiato molto. 
Forse un giorno riusciremo a unire al ricordo di questa tragedia non solo il fastidio dei metal detector negli aeroporti, o degli interrogatori alla frontiera USA. 
Forse un giorno. 
Per ora continuiamo a ricordare quelle duemilanovecentosettantaquattro persone che da quella mattina non ci sono più, guardando le gru che ricostruiscono il One World Trade Center. E la vita che va avanti.


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